La gloriosa maglia granata del San Zeno è stata di buon auspicio per molti giovani calciatori che dalla fatidica “Busa” hanno preso il volo verso palcoscenici più importanti e prestigiosi. Ad aprire oggi l’album dei ricordi è Alberto Faccini. Veronese doc - è nato nella città di Giulietta il 22 gennaio del 1961 - ha mosso i primi passi proprio nella società del presidente Franco Casale mettendo le basi per una carriera che lo ha portato nell’arco di una quindicina d’anni a vestire, tra le altre, le maglie di Roma, Avellino, Perugia, Sambenedettese, Pisa, Parma e Padova. Terminata l’attività agonistica è diventato un apprezzato e conosciuto procuratore sportivo.
Il San Zeno ha rappresentato il tuo trampolino di lancio verso il “calcio che conta”. Il tuo ricordo.
«E’ un ricordo importante della mia infanzia fino all’adolescenza. In “Busa”, infatti, ho giocato dai 9 ai 14 anni. Tutto è iniziato nel campetto di terra della parrocchia di San Bernardino, di fronte al cinema K2, dove andavo sempre a giocare con gli amichetti di allora. Il mitico “Molena”, che voi tutti ricorderete, passando da quelle parti con la sua indimenticabile bicicletta, mi vide. Ricordo che mi chiese subito chi fossero i miei genitori. Mia madre Adua mi ricorda sempre che parlando con lui diede il suo assenso al mio tesseramento. Da quel momento, quindi, è iniziato tutto».
Apriamo il tuo album dei ricordi. «Eravamo veramente una bella squadra. Pensate che oltre a me, l’anno dopo andò alla Roma anche Avesani mentre Biasin e Menegotti andarono rispettivamente a Fiorentina e Milan. Non dimentico nemmeno altri compagni di quel tempo come Roberto Bentivoglio e Andrea Bedeschi. Uno dei ricordi più nitidi che ho è una finale contro la Virtus di Gigi Fresco dove feci anche gol. Quando vengo a Verona e lo incontro ricordiamo sempre con piacere quell’episodio così lontano nel tempo».
Questa settimana è stato il 35esimo anniversario della scudetto conquistato dal Verona di Bagnoli. Ironia della sorte in occasione dell’ultima partita al Bentegodi tu eri in campo con la maglia dell’Avellino ed entrasti, addirittura, nel tabellino dei marcatori. Che sensazione è stata?
«Credo che nella vita ci siano dei punti d’incontro che il destino decide per noi. Nel mio caso, probabilmente, era proprio destino che le nostre strade si incrociassero giusto in quel giorno in cui io, veronese, partecipavo con un’altra squadra alla festa dello scudetto gialloblù, colori dei quali sono sempre stato tifoso. Quando segnai esultai, ma per mandare un saluto agli amici in curva sud dove da giovane ero stato più volte. Qualcuno, fischiando, non capì in realtà il mio era un modo per partecipare alla festa della mia squadra del cuore».
C’è stata qualche possibilità che tu finissi proprio al Verona?
«Quando ero al San Zeno, oltre alla Roma mi volevano anche il Torino e, soprattutto, il Verona. Guido Tavellin, responsabile del settore giovanile gialloblù, cercò di portarmi all’Hellas. Alla fine, tuttavia, parlandone anche con i miei genitori, scelsi la Roma, anche per una certa riconoscenza verso il San Zeno che, grazie alla mia cessione, poté ottenere una somma decisamente importante. Dopo lo scudetto conquistato nella stagione 1982/83 con la squadra giallorossa, infine, ci fu un contatto tra Viola e Guidotti, i due presidenti di allora, per un mio passaggio in riva all’Adige ma poi non se ne fece nulla».
Una delle figure principali del San Zeno è sicuramente il presidente Franco Casale, che tu conosci molto bene.
«Franco rappresenta il San Zeno. La continuità negli anni di questa Società è senza dubbio uno dei suoi più grandi meriti. In tutti questi anni, inoltre, la sua presenza e la sua passione sono sempre state di grande stimolo per tutti i piccoli giovani calciatori. In tutto questo tempo e, specialmente, in questi ultimi anni, la società è cresciuta molto e oggi è diventata una bella realtà. Quando vengo a Verona, se ne ho la possibilità, non manco di passare dalla “Busa”».
Una domanda, infine, sul calcio dei giorni nostri. Il tuo lavoro di procuratore ti porta a vedere da vicino molti calciatori, spesso anche giovani. Come mai sembra esserci una “preferenza” per quelli stranieri?
«Personalmente sono sempre stato un sostenitore dei calciatori italiani, soprattutto a livello giovanile. Credo che oggi il problema principale sia l’alta percentuale di abbandono. Questo per due motivi: prima di tutto manca a volte la voglia di sacrificarsi e non mollare mai. Per fare il calciatore, fin da giovane serve allenarsi con continuità, conducendo una vita sana, avendo fisso l’obiettivo di giocare un giorno in serie A. Nel calcio attuale esistono troppe distrazioni come social o tatuaggi, tanto per citarne alcuni. Inoltre, un altro aspetto importante, riguarda le troppe aspettative da parte dei ragazzi e, soprattutto, in certi casi anche dei loro genitori. Serve sicuramente maggior equilibrio. Personalmente non sono contrario allo straniero “forte”. Ho giocato - aggiunge - con giocatori come Falcao o Ramon Diaz, tuttavia nel nostro mondo dei procuratori ci sono anche alcuni che puntano meno al progetto di crescita dei ragazzi e più al semplice ritorno economico. Nel calcio giovanile, inoltre, viene spesso a mancare la giusta meritocrazia. Bisogna far crescere chi lo merita: alla fine, calcio è sempre lo stesso. Gli stranieri oggi hanno forse più “fame”, quella che avevamo noi quando io ero un giovane calciatore. Ai miei tempi esisteva solo il campo e si aveva molto meno di adesso. Ricordo sempre con grande simpatia sempre “Molena” quando ci vedeva arrivare al campo con gli indumenti da gioco in borse di plastica e ci diceva “gheto mia i schei par na borsa?”. Decisamente altri tempi».
Enrico Brigi [IG @enrico.brigi FB @enrico.brigi]